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Prologo di Milites 3. Gli scudi di Roma





Roma, 169 a.C., Foro

 

Levinio incespicò e quasi rovinò a terra. Era la seconda volta che il polpaccio si irrigidiva, facendogli perdere l’equilibrio. Ne approfittò per riprendere fiato. Il giovane Emiliano, di cui era responsabile, si stava allontanando per gli stretti vicoli sotto il Collis Latialis[1], a dispetto di ogni precauzione.

Con un grugnito riprese la via, cercando di recuperare il distacco. Gorgidas, il tutore greco di Emiliano, sudava e ansimava, affardellato dalle pergamene che non aveva avuto il buon senso di lasciare a casa.

«Emiliano, rallenta» cercò di fermarlo Gorgidas.

«Siamo in ritardo» rispose trafelato il giovane. «Mio padre terrà il suo comizio a momenti.»

«Neanche si stesse annunciando la votazione» si lamentò il greco, riprendendo a caracollare.

Levinio riuscì a trovare un buon passo, evitando di calcare con la gamba rigida e terminando la falcata con un saltello. Il fiato, però, rimaneva un ostacolo. Era vecchio già da molti anni, ma ora sembrava che il corpo avesse intenzione di farglielo notare una volta per tutte. Strinse i denti e tenne duro. Aveva giurato di proteggere Emiliano a costo della vita. L’aveva promesso a Scipione l’Africano, l’uomo al quale doveva il suo riscatto dall’infamia.

Emiliano si fermò a un incrocio, valutò il percorso migliore, e senza voltarsi verso i due anziani prese a destra. «Presto, venite!» li chiamò eccitato.

Il greco alzò gli occhi al cielo e fece cenno a Levinio di anticiparlo. Levinio poteva comprendere l’ansia del giovane. Il padre, Lucio Emilio Paolo, gli aveva promesso di portarlo con sé in Macedonia, se fosse riuscito a vincere le elezioni per il consolato dell’anno seguente, e quella mattina avrebbe reso pubblica la sua candidatura. Era un momento delicato, per il quale lo stesso Emiliano si era impegnato sollecitando i clientes al sostegno, promuovendo il buon nome del genitore, e spendendosi in prima persona ogni volta che ve n’era stata necessità.

Levinio l’aveva conosciuto da bambino, e ora aveva avanti a sé un uomo. Nonostante l’affanno, osservò compiaciuto la schiena eretta, le spalle ben formate, il passo fermo e sicuro di Emiliano.

«Presto» esortò di nuovo il giovane. «La platea si sta radunando, sento il vociare del pubblico!»

Levinio aumentò l’andatura. Le orecchie gli pulsavano in maniera feroce, e troppo tardi si rese conto della nota omicida nel trambusto crescente. Portò una mano al pugnale e gridò con la forza della disperazione a Emiliano di fermarsi. Il ragazzo si bloccò.

«Cosa succede, Levinio?» domandò Gorgidas.

Levinio non aveva più fiato per rispondere, quel poco che gli rimaneva lo spese per raggiungere Emiliano con la vista appannata.

«Vieni via, presto…» Levinio strattonò il giovane, spingendolo verso la parete di legno di una casa. In quello stesso istante, una folla impazzita sbucò dalla curva del vicolo. Uomini, donne e perfino bambini fuggivano senza alcun riguardo l’uno dell’altro. Si spingevano e gridavano per il terrore, non c’era più alcuna umanità in quella massa incontrollabile. Qualcuno cadde e venne calpestato a morte. Un bambino di pochi anni fu spinto contro un muro e colpito così tante volte da perdere ogni fisionomia. Levinio teneva la schiena rivolta alla moltitudine, proteggendo con il proprio corpo Emiliano e trattenendolo. Il ragazzo stava cercando di divincolarsi, gridando disperato il nome di Gorgidas. Il tutore greco era ancora in mezzo alla via quando era piombata su di loro quella calca forsennata. «Devo… Devo andare da lui. Lasciami!»

Emiliano cominciò a spingere con tutto il corpo per liberarsi. Levinio stava per perdere la presa. Con un gesto disperato, sfruttando ogni nozione appresa in una vita di combattimento, Levinio si scostò un poco dalla parete, lasciò che Emiliano si divincolasse per metà, poi lo afferrò con tutte le forze residue e, sfruttando la spinta della gente in fuga, lo trascinò contro l’ingresso della stamberga. Sfondarono la porta con uno schianto, rovinando sul pavimento di terra battuta. Emiliano, tramortito, iniziò a lamentarsi, ma Levinio sapeva di non poter perdere tempo. Gli uomini in preda al panico sono come acqua turbinante in un alveo sempre più stretto. Doveva bloccare l’ingresso.

Si era appena alzato in piedi che qualcuno lo spintonò. Senza guardare in faccia l’estraneo, Levinio lo serrò in una morsa intorno al collo. Percepì le forme, il seno palpitante, il lieve profumo agrumato sopra il lezzo di capelli sporchi. Una donna del popolo. Non l’avrebbe uccisa, ma non poteva nemmeno lasciarla. La mandò a sbattere contro la parete di legno e canniccio, tramortendola. Quindi afferrò un tavolaccio sbilenco e lo puntò contro gli stipiti, creando una barriera alta fino alla cintura. Un uomo cercò di infilarsi dentro la baracca. Si aggrappò al bordo del tavolo per scavalcarlo, ma la fiumana iniziò a strattonarlo via. Con le mani serrate sul legno e gli occhi sgranati, fissò Levinio implorando il suo aiuto, sembrava un marinaio finito in un gorgo. Levinio gli afferrò le braccia ma non lo tirò a sé. Si puntellò allo stipite e usò il corpo dello sventurato per chiudere il varco. Ogni tanto qualcuno veniva spinto contro la barriera, e la pressione si faceva insopportabile, ma Levinio non concesse un solo pollice di spazio. Ricevette anche dei colpi: ginocchiate, testate, manate. Nessuno di essi era un vero attacco nei suoi confronti, tutto faceva parte del turbinare. Dopo un tempo che non seppe valutare, la calca smise di pressarli. L’uomo che aveva utilizzato come involontaria barriera era disteso a terra sul selciato, le braccia ancora serrate al tavolaccio, i polsi stretti nella presa di Levinio. L’anziano legionario lo lasciò cadere e si alzò, scosso. La donna che aveva tramortito poco prima saltò verso di lui, soffiando come un gatto. Levinio si preparò a riceverne l’attacco, ma quella stava puntando alla porta. Con malagrazia, superò il tavolaccio, cadde, si rialzò e corse via. Levinio la seguì con lo sguardo, ma la sua attenzione fu subito attratta dal lato opposto del vicolo.

Alcuni uomini, armati di bastoni, pugnali e daghe, stavano avanzando piano verso di lui. La maggior parte di essi non sembrava nulla di più di mentecatti armati per l’occasione, e le loro armi erano linde. Era un tumulto politico, orchestrato da una fazione per screditarne un’altra, una sedizione turbolenta tipica dell’Urbe. Così vicino al Forum, poteva solo significare che l’obiettivo fosse il padre di Emiliano. O i suoi oppositori, perché Emilio Paolo non era certo un uomo timido.

I nuovi giunti, scorgendo Levinio, si aprirono a ventaglio intorno a lui. Levinio fece per afferrare il pugnale, ma la ragione prevalse e si fermò a metà. Erano troppi per tentare di difendersi. Aveva una sola possibilità per salvare la sua vita e quella di Emiliano e lanciò i dadi contro la sorte. «Emilio Paolo Console!» disse, con voce ferma.

Il capobanda lo fissò a lungo, reggendo lo sguardo finché quello granitico di Levinio non lo obbligò ad abbassare il suo. Fece un cenno con la testa e sibilò tra i denti. La banda proseguì la sua caccia seguendo la scia di cadaveri e feriti. Levinio trasse un sospiro.

La sensazione di sollievo, però, durò poco. A pochi passi da lui, steso sulla schiena, più simile a un mucchio di stracci che a un uomo, c’era Gorgidas. Emiliano, che da quando si era ripreso non aveva più tentato di forzare la via per l’esterno, posò una mano sulla spalla di Levinio, in una muta richiesta di uscire. La situazione era tutt’altro che sicura, ma Levinio lo lasciò passare.

Emiliano corse verso il suo tutore, gli prese le mani tra le sue e le tenne strette. Ne chiamò il nome con voce strozzata dalla commozione. Pochi istanti prima era un giovane uomo pieno di energia, coinvolto fino alla punta dei capelli nel suo imminente futuro. Adesso era tornato il ragazzino fin troppo intelligente e sensibile che Levinio aveva protetto per tutti quegli anni.

Gorgidas ebbe uno scatto convulso, inarcò la schiena e sibilò come una vescica svuotata dall’aria.

«È ancora vivo. È vivo, Levinio. Aiutami, presto!»

Levinio si piegò trattenendo un gemito per il dolore alle gambe. Le spalle di Emiliano dondolavano al ritmo di un pianto silenzioso, mentre stringeva il misero corpo martoriato di Gorgidas a sé. Il ragazzo gli sussurrava di stare tranquillo, perché ora l’avrebbero portato in salvo. Intanto, altri rumori di lotta, di morte e dolore si diffondevano per i vicoli. «Dobbiamo portarlo dentro, è troppo pericoloso qui» disse Levinio.

Sollevare il corpo di Gorgidas fu per lui uno sforzo immane, dovette irrigidirsi per non spezzarsi in due all’altezza delle reni. Emiliano si alzò di scatto, di nuovo lucido, e lo aiutò con delicata fermezza. Gorgidas emise un fioco lamento ma non parlò. Levinio immaginò che più di un osso fosse stato spezzato ma, soprattutto, era certo che il costato fosse stato danneggiato in maniera seria, dato il rantolo strozzato con il quale Gorgidas respirava. Il ferito aveva lo sguardo appannato, e quando i loro occhi si incrociarono Levinio vi lesse quel genere di paura della morte che appartiene soltanto a chi ne percepisce l’imminenza. Gorgidas distolse lo sguardo e abbassò le palpebre.

Rientrarono nella baracca che li aveva salvati, e con estrema delicatezza adagiarono Gorgidas sul pagliericcio marcescente addossato a una parete.

«Cerca dell’aceto, presto» disse Levinio a Emiliano.

Il ragazzo rovistò nell’angolo cottura. Aprì alcune ceste, fece cadere suppellettili e cocci che si frantumarono a terra. Riuscì a trovare quel che cercava e si fece largo a calci nel disastro da lui provocato. Gorgidas riaprì gli occhi quando gli strofinarono sotto al naso uno straccio imbevuto con la forte sostanza. «Fa… Male» disse in un sussurro.

«Dove?» gli chiese Emiliano.

«Ovunque…» Gorgidas contrasse le labbra in quello che ai due parve un sorriso.

«Dovremo rimanere qui ancora un po’» disse Emiliano. «Le strade non sono sicure, ma a casa ti cureremo come si deve, non temere.»

«Non… Non ho paura, Emiliano» rispose Gorgidas.

«Bene. Bene, sì. Non avere paura, perché sopravvivrai, certo!»

Le labbra di Gorgidas si incresparono di nuovo. Levinio sapeva a cosa si stesse riferendo Gorgidas e non disse nulla.

«Hai sete? Ti aiuto» disse Emiliano, speranzoso.

Provarono a fargli bere poche gocce di aceto, ma quando la tosse scosse il corpo del tutore desistettero. Gorgidas trasse un profondo respiro che gorgogliò come se stesse affogando.

«Riposati finché non andremo via» gli disse Emiliano accarezzandogli la testa calva.

L’anziano tutore si volse con estrema lentezza verso Levinio. «Se dob… dobbiamo attendere… tu sai… cosa voglio… ascoltare.»

Levinio lo sapeva. Aveva rimandato a lungo quella narrazione, ma Gorgidas non aveva mai perso occasione di ricordargli che gliela doveva. A volte anche Emiliano si univa alla sua richiesta, quando non era distratto dalle incombenze del divenire adulto. Per anni Levinio aveva glissato, mai davvero sicuro di poter raccontare di quei giorni terribili e a loro modo unici, forse magnifici, che pochissimi altri ormai potevano dire di aver vissuto. Ora Gorgidas gli stava comunicando l’urgenza di quella richiesta con lo sguardo, e Levinio seppe che non si sarebbe potuto sottrarre. Si alzò per sistemare il tavolo, riuscendo a chiudere del tutto il varco d’ingresso, ed Emiliano lo aiutò a puntellarlo. Soddisfatto, Levinio tornò a sedere di fianco a Gorgidas.

Pensava di non sapere nemmeno come iniziare, ma aprendo le porte della memoria i ricordi fluirono come un torrente inarrestabile. «Dopo gli eventi del Trasimeno[2], condussero noi veterani del settentrione dai castra di Placentia a quelli nei pressi di Ariminum, dove fummo riorganizzati in nuove legioni. Dopo pochi giorni, ci incontrammo con il Dittatore appena eletto: Quinto Fabio Massimo.»

«La… pecorella» mormorò Gorgidas.

«In realtà un ariete» corresse Levinio. «Lui prese il comando di tutte le forze di Roma e ci portò nel Meridione, dove iniziammo una guerra strana, tutta nostra, contro il feroce Annibale. Come sapete, Massimo non voleva sfidarlo in campo aperto. Iniziammo allora a tormentare il nemico con veloci sortite, inseguimenti e imboscate. Io, Manlio e Filone divenimmo presto esperti di quel genere di guerra…»


[1] Estremità sud del Quirinale.

[2] La battaglia del 21 giugno del 217 a.C., vinta da Annibale contro il Console Gaio Flaminio Nepote.




Area geografica delle vicende narrate nel romanzo



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