Al nervoso gesto di congedo del conte, gli uomini voltarono i cavalli e si allontanarono con le spalle curve e gli sguardi sfuggenti. Ventidue cavalieri e un numero doppio di sergenti. Un silenzio glaciale fu il saluto di chi scelse di rimanere. Per chi non aveva abbandonato Helia di Beaugency, signore del Maine, magra consolazione poteva essere la maledizione che avrebbe accompagnato per sempre i codardi. Il conte gettò un ultimo, fugace sguardo alle schiene di chi l’aveva abbandonato e tornò alla moltitudine dei nemici che non aveva ancora terminato di disporsi sul campo di battaglia. La foresta dalla quale stavano uscendo i normanni sembrava contenerne centinaia. Erano molto più numerosi di tutti gli uomini che lui avesse mai comandato. Laggiù, oltre la brulla spianata che li divideva, c’erano mercenari fiamminghi con le corte cotte di maglia e le maledette balestre che sembravano estensioni delle braccia per quella gente. Intorno a loro i lancieri di Pais, capaci di formare in pochi istanti una barriera impenetrabile, pagati sul peso delle loro robuste aste. Ai loro fianchi attendevano irrequieti i cavalieri del Berry, tizzoni d’inferno che preferivano muoversi agilmente anziché chiudersi dentro pesanti usberghi. Indomiti e spietati, erano famosi per non concedere quartiere agli avversari. Davanti a tutti questi combattenti, disposti in una fitta fila che serrava e distingueva ranghi e obblighi feudali, si mostravano senza alcun timore i cavalieri della masnada del duca di Normandia. Fissavano come spettri l’esiguità delle sue forze, pregustando gli istanti prima dell’unica carica con la quale le avrebbero cancellate dal campo di battaglia.
«Il mio vessillo» ordinò Helia con voce ferma. Il suo alfiere si avvicinò e insieme mostrarono la volontà di contendere il campo. Lo stendardo di Robert Courteheuse, figlio di Guillaume il conquistatore d’Inghilterra, garrì in quel momento, ravvivato da quel vento misterioso che sembra levarsi spontaneo dal suolo quando gli uomini si apprestano a combattere. Passò un’ora, infine tutta l’armata normanna era schierata e pronta.
«Mio signore, i codardi sono ormai lontani, non restano che i coraggiosi» disse l’araldo, un uomo anziano la cui voce non era rotta dall’angoscia. Evidentemente era pronto a morire.
«Potrei arrendermi, non credi? I numeri sono contro di noi» suggerì, senza convinzione.
«Non punire il coraggio di chi ti è restato al fianco.»
Helia sorrise, con metà della sua bella bocca. Era il signore senza erede di una terra senza speranza. Infilò l’elmo augurandosi che vi fossero dei bravi cantori, nella schiera normanna. Un trambusto di cavalli al gran passo spezzò il silenzio funebre della schiera del Maine. Una nube di polvere annunciò l’arrivo di una compagnia in armi alle loro spalle. L’astuzia dei normanni aveva nuovamente prevalso sugli accorgimenti dei loro oppositori, si disse Helia sconfortato. Essere attaccati alle spalle era la fine, senza che fosse loro concessa l’occasione di una sfolgorante carica. Invece, con stupore, si rese conto che gli uomini in rapido avvicinamento mostravano stendardi e scudi a lui noti. Li aveva mandati a memoria per maledirli dall’inferno che avrebbe a breve raggiunto: i codardi che avevano accettato il suo perentorio invito a lasciarlo, stavano ritornando. Li guidava un cavaliere il cui usbergo emanava riflessi d’oro e rubino colpito dai raggi del sole. Non faceva parte del novero di quelli che fino a poco prima erano con lui. Eppure, ne riconobbe i colori e si meravigliò per la sua comparsa.
Il gruppo si fermò davanti a Helia. Visibilmente a disagio, gli uomini che avevano lasciato il proprio signore e i compagni in balia del destino non osavano guardare in faccia nessuno dei presenti. Chi li aveva condotti si tolse l’elmo e il cappuccio di ferro.
«Ademar» lo salutò Helia, alzando la mano destra.
«Mio signore.»
«Avevo scacciato quei ventidue codardi.»
«Al loro posto ho condotto venti leoni.»
«Due sono sfuggiti anche a te, a quanto pare.»
«No: hanno provato a difendere la loro infamia con le armi. Ti ho riportato il loro sangue, è nel fodero della mia spada» Sfilò la guaina dalla cintura e ne estrasse platealmente l’arma. La lama era lorda di scuro icore. Lanciò il fodero ai piedi di Helia.
«Perché?»
«Mi hai allontanato ma io non ho mai smesso di amarti. Sono di nuovo al tuo cospetto e Iddio mi ha concesso degna masnada per accompagnarmi. Combatterò per te, che tu lo voglia o no.»
«Sei quindi disposto a rinunciare a lei, per far sì che vecchi alleati ritrovino la pace, in questo momento di grande pericolo?» Le parole del conte suonarono come una formula per un nuovo giuramento fra lui e il giovane vassallo. «No. Combatterò per te, ma morirò per lei.»
Helia serrò la mano sull’arcione. «Tu stai combattendo contro il Maleagant, non contro i miei nemici. Vai, è laggiù, vicino al Courteheuse.»
«Io combatto contro i tuoi nemici perché essi lo sono anche per me, contro di essi hai il mio aiuto e consiglio. Vincerò per te o morirò per Rohese, e questo è quanto!»
Prima che Helia potesse rispondere, Ademar afferrò la spada con la mano dello scudo e alzò la lancia al cielo, gridando: «Dritto alle bandiere!»
Gli uomini che l'avevano seguito esplosero in un unico boato e si gettarono dietro il ragazzo, dritti contro il cuore pulsante dello schieramento normanno in avvicinamento. Helia afferrò lo scudo dalle mani di un suo attendente, controllò i legacci dell'elmo e della manica di anelli di ferro al braccio destro. Afferrò l'asta con il suo stendardo e guidò i suoi in battaglia, dietro il cuneo di feditori guidati da Ademar. Quando l'avanguardia impattò come un maglio contro la linea normanna si sarebbe detto che perfino il vento si fosse fermato a guardare. Grida e stridio d’acciaio si levarono al cielo, poi tutto divenne frammentato, ombre e lampi di luce in rapida successione presero il posto della razionale percezione delle cose. Non c'era modo di prendere prigionieri, di accettare guanti o cedere i propri. Nel terribile incontro fra chi cercava morte o redenzione non vi era spazio per la pietà. Lo comprese il normanno a cui Ademar tagliò un braccio? Se ne rese conto quello a cui infisse nella pancia metà della lunga lancia? Lo capirono gli altri che colpirono e mutilarono in un turbinio di sangue? Morto il cavallo, Ademar accompagnò a terra la bestia agonizzante, agile evitò di finirne schiacciato. Mulinò la spada afferrando il pomo con la sinistra. Tagliò, squarciò, ferì chiunque osasse avvicinarsi. Fu il vuoto intorno a lui, figlio del terrore per il demone d'argento e di rosso vestito che combatteva come se non volesse avere un domani da celebrare. «Ademar!» gridò qualcuno fra il vorticare che lo circondava. «Ademar, per Helia, lasciami avvicinare.»
Un guerriero con il camaglio squarciato si fece avanti. Dall'apertura nel cappuccio sgorgava abbondante sangue. Recava un cavallo possente, trattenuto per le redini. «Prendi» gli disse.
Ademar si guardò intorno, lo stendardo del comandante normanno era distante, fuori dalla sua portata se fosse rimasto appiedato.
«Di chi è?» domandò afferrando le briglie. Guardò attentamente il guerriero, capendo che non si trattava di un cavaliere. «Il mio!»
«E qual è il tuo nome?»
«Mi chiamo Benet, e combatto senza il dono delle armi, né un signore al quale domandare vino e pane.»
«Rimani in vita, Benet. Rimani in vita e li avrai!»
Salì con un balzo in sella, con negli occhi la promessa di non dimenticare quel gesto. Spronò il cavallo e spavaldamente sfiorò l'alfiere dei normanni. Una guardia di ferro proteggeva la bandiera, quattro cavalieri in armatura completa che alzarono lo scudo, preparandosi allo scontro. Quel giorno Ademar aveva invocato la morte ma essa non era venuta per lui. Era discesa sulla terra e combatteva alla destra del cavaliere. Con un grido che avrebbe spezzato il midollo di un eroe dell'antichità, Ademar si gettò contro gli alfieri e ne frantumò la coesione. Ricevette colpi che avrebbero ucciso un toro e replicò sfasciando carni e armi. Le urla dei feriti raggiunsero il cielo, anticipando le anime sofferenti. Strappò di mano l'asta al cavaliere che l'aveva sorretta tronfio della sicura vittoria. Fuggirono i guardiani ancora in vita. Una lancia inattesa lo colpì alle reni. Le cinghie dello scudo si spezzarono. Il vessillo normanno volò lontano. All’ultimo ritrovò l'equilibrio, giusto in tempo per evitare di finire infilzato dal colpo che seguì. Deviò la lama senza guardare chi avesse di fronte. Parò un colpo d'ascia, affondò la spada, infine si sporse fino a sfiorare il terreno per afferrare lo scudo e poi di nuovo ritto in sella parò e colpì, fendette l'aria, poi la carne. I villani che lo attorniavano fuggirono via quando uno di loro gridò trionfale. Avevano recuperato l'asta con il vessillo del loro signore. Il destriero incespicò nel campo arato dalla guerra. Ademar li lasciò andare e cercò un punto dal quale comprendere, nel caos che lo circondava, dove avevano portato l'agognato trofeo.
Quando li individuò lanciò un grido soddisfatto verso i fantaccini che si erano stretti in un muro di scudi improvvisato. All'ultimo lo affiancò Benet, con la lancia ben salda e a cavallo di un destriero normanno. Altri si misero sotto la sua bandiera, lasciando le piccole mischie nelle quali la battaglia si era frammentata. Erano quelli che Ademar aveva adunato a sé dopo l'ignominiosa fuga.
Combattevano accecati da una furia che nasceva dalla vergogna per la follia che li aveva fatti tradire il conte. Ognuno di loro colpiva e incassava ferite per tre uomini. Sfondarono la schiera dei fanti e ne fecero strage. Corpi e armi si lasciarono alle spalle mentre attraverso il varco puntarono come dardi di balestra contro il condottiero normanno e lo stendardo che aveva afferrato. Alcuni arcieri lanciarono verso il loro fianco destro una micidiale salva di frecce. Senza la protezione dello scudo numerosi furono i colpiti. Per la seconda volta Ademar rimase senza cavalcatura: una freccia aveva trapassato l'occhio dell'animale uccidendolo sul colpo. Dei suoi, quando si rialzò, non c'era più nessuno. Alcuni giacevano a terra, feriti, gli altri erano piombati sul nemico e con esso, fra la polvere, si confondevano. Ademar infilzò da parte a parte un fante armato d’ascia, spinse via il corpo e gettò lo scudo ormai spezzato. Afferrò l'ascia con la sinistra e turbinò le lame nell'aria per tenere a distanza gli avversari che lo circondavano.
«Aie!» gridò un cavaliere normanno facendosi largo fra la marmaglia. «Frenate le vostre brame, canaglia e allontanatevi.» Li allontanò con il peso del cavallo sul quale era arrivato e con quello dell’animale sellato che conduceva con sé. «Vieni avanti.» ringhiò Ademar quando infine ebbe spazio a sufficienza per poter riprendere fiato. «Non sono qui per combatterti.»
«Se pensi che mi arrenderò, sbagli.»
«Neanche questo è ciò che mi ha spinto qui. Sono qui per consegnarti questo cavallo a nome degli uomini cortesi miei pari nella schiera di Rudger Maleagant.»
«Il tuo signore ha un contenzioso personale nei miei confronti.»
«Il mio signore vuole castrarti con le sue stesse mani.»
«Non riavrà la donna che gli fu promessa.»
«Non sta a me intromettermi in questo. Il destriero riguarda noi cavalieri, qui e ora. Sarebbe un enorme disonore se morissi combattendo come un qualsiasi sergente appiedato. Prego, prendi il nostro dono e lascia che tutti noi si possa avere l'occasione di combatterti ad armi pari.»
Tacque in attesa di una risposta. Si fissarono, senza una parola, mentre intorno a loro la battaglia raggiungeva il suo apice di violenza.
«Accetto.»
«Possa essere la mia mano quella che ti batterà» disse il normanno lasciandogli le redini.
«Non avrò pietà alcuna.»
«Nessuno l'ha pretesa. Addio e buona fortuna.»
Ademar salì in groppa al terzo cavallo di quella giornata campale. Due erano le principali mischie intorno alle quali si spegnevano gli scontri minori come faville intorno a un fuoco. Il centro, composto dal fiore della cavalleria quel giorno presente, era una confusione di cariche e controcariche. La battaglia, in quel punto, somigliava a un vorticante torneo. Le ali di fanteria invece si muovevano intorno a due piccoli punti di contatto, dove le lance impattavano contro gli scudi e i più coraggiosi si facevano ammazzare per i capricci dei principi. Ademar studiò un percorso diretto verso il suo obiettivo e con una folle risata si incuneò fra i cavalieri in ultima linea che cercavano un poco di ristoro. Seguito non solo dalla manciata dei suoi sopravvissuti ma da tutti quelli che avevano visto in lui l'incarnazione del perfetto cavaliere, un redivivo Roland giunto in mezzo a loro per portarli alla vittoria. Rudger de l’Azur, il Maleagant, all’improvviso lo riconobbe e ruggì tutta la sua rabbia.
«Vieni a me, bastardo figlio di cagna!» gli gridò. Ademar lo vide: gigantesco da far somigliare il possente destriero che cavalcava a un magro asinello. La mascella squadrata solcata da una rete di cicatrici indurivano un volto già rude. Un colpo d’ascia gli aveva sfondato uno zigomo e quella cavità mai riaggiustatasi conferiva alla bocca una deformità bestiale capace di terrorizzare i più solidi cuori con il semplice abbozzo di un ghigno.
Digrignò i denti e si lanciò contro di lui con la spada puntata in avanti. La sfida era stata accettata ma il destino volle che non vi fosse un solo scambio di acciaio fra i due. Helia aveva lasciato una minuscola forza come riserva e questa, nel marasma della mischia frammentata, parve ai normanni un’onda dell’oceano, inarrestabile e gigantesca, quando si lanciò dalla boscaglia inneggiando al conte del Maine. Cavalieri in fuga, destrieri imbizzarriti senza padrone e fanti alla disperata ricerca di salvezza si frapposero fra i due. Maleagant rischiò di essere disarcionato dal cavallo che si impennò, scalciando selvaggiamente. Ademar cercò di farsi largo fino al condottiero normanno, infilzò l’araldo di Robert Courteheuse sotto l’ascella, trapassando usbergo e muscolo. L’uomo cadde riverso sulla sella, poi scivolò a terra. Ma Ademar non riuscì più a trovare il suo nemico in mezzo al marasma. Lo maledisse silenziosamente e poi, sfinito, si arrese alle grida di dolore dei suoi muscoli ormai allo stremo. Improvvisa come aveva avuto iniziò, la battaglia ebbe termine. Dove prima cozzavano le armi, ora grida di vittoria salutavano le schiene dei normanni in fuga. Non si tentò di inseguire quelli a cavallo, ma tutti si adoperarono per eliminare i sergenti a piedi e i mercenari armati di balestre, il disonore dei campi di battaglia. Mentre la polvere si posava sulla terra cosparsa di cadaveri e feriti, Helia si portò al centro dell'ormai disfatta linea nemica e contemplò la vittoria che non aveva creduto di poter ottenere. «Mio signore. Conte» lo chiamò il suo alfiere indicando una figura a piedi che si avvicinava piano verso di loro. Era talmente lordo di sangue e fango da non essere più riconoscibile. Aveva le maglie dell'armatura aperta, penzolanti in tanti di quei punti che non si sarebbe creduto possibile che un solo osso fosse sopravvissuto alla mischia. La cotta era scomparsa, un vuoto di stoffa lacera e viva pelle ne aveva preso il posto. La figura incespicava vistosamente, e le spalle possenti erano curve per il tragico e faticoso mestiere di quel giorno di vittoria. Reggeva un'asta con il vessillo argento e azzurro sbrindellato del Courteheuse, la tela pigramente lambita dal vento dell'ovest svolazzava voluttuosa. Quando fu a pochi passi dal conte, Ademar sorrise e il bianco dei denti parve una spaccatura calcarea sul versante di una scura montagna. Lanciò lo stendardo ai piedi di Helia e attese che l'altro dicesse qualcosa.
«Hai ucciso Maleagant?»
«No.»
«E lui non ha ucciso te. Una battaglia inutile, la tua.»
Ademar fece una smorfia ma non accettò l’invito a mostrare il fianco. Scosse la testa: «Mio signore, nessuna vittoria è mai inutile.»
«È colpa tua se quest'oggi abbiamo combattuto» disse Helia con voce neutra.
«No, la mia colpa riguarda il luogo dello scontro. I normanni ti avrebbero attaccato ma li avremmo affrontati lungo il confine.»
«Adalberon ha aperto loro la via per punire me per la tua insolenza.»
«Ora dovrà ammettere la sua follia.»
«Ora tu dovrai ammettere la tua!» Helia alzò la voce.
«Sì, è così.»
«Rinuncerai a lei?»
«Sulla mia vita, no!»
Helia non parve sorpreso, provò a trattenere un sorriso ma poi cedette e proruppe in una risata sincera.
«Riuscirò mai ad odiarti davvero, Ademar, che combatti come un Leone?»
Ademar piegò un ginocchio e reclinò il capo.
«Alzati. Abbraccia il tuo signore.» Helia smontò da cavallo e si avvicinò al giovane. «Dicono che Ildegaris abbia pianto per tre giorni e tre notti alla notizia della tua fuga... d'amore.»
«Ne dubito, mio conte. Piuttosto immagino sia andata a domandare il costo di un sicario.»
Risero complici.
«Mi hai dato una grande vittoria, oggi, ma Robert Courteheuse non si arrenderà facilmente. Si sente titolare della contea.»
«Anche quando fu conte di queste terre nessuno dei nobili gli fu mai amico.»
«Ciò non toglie che non accetterà mai che io sia succeduto al debole Hugh, soprattutto per la misera cifra di diecimila solidi.»
«Tutti volevano te come conte, mio signore.»
«Già. I signori del Maine non sono mai stati bravi a programmare il proprio futuro.» Rise amaro. «Ho bisogno di Adalberon e dei suoi castelli. Temo che dovrò volgermi contro di lui, ora, per aver permesso ai normanni di passare impunemente nelle sue terre per attaccarmi.»
«Sarò con te.» Ademar posò la mano sull’elsa della spada. «È il padre di tua moglie!»
«Dove tu combatterai, io combatterò.»
Helia gli posò una mano sulla spalla. «Gli uomini che hai riportato, quelli che ancora si reggono in piedi, sono tuoi.»
«Temo di non avere più molto ad offrire loro.»
«Le terre che Adalberon si è ripreso torneranno a te. Sei ancora sposato con sua figlia e non sarà certo il tuo giacere con una servetta a bloccare tutti i miei piani.»
«Lei non è una serva, ma una nobile dama.»
«Sì, di una terra così lontana che non sappiamo nemmeno come arrivarci. Qui e ora è poco più di una puttana con la quale ti stai sollazzando più di quanto sia accettabile. Posso comprendere come amico, ma come tuo signore non potrò accettarlo molto più a lungo dei miei vassalli.»
Ademar strinse le labbra e sembrò sul punto di replicare ma decise di tacere, accettando le parole del conte per quello che erano. Helia lo congedò con una paterna stretta alla spalla.
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