Diversi anni or sono, troppi in realtà per volerli anche specificare con precisione, gestivo un piccolo negozio di musica. Si chiamava Iron Music e come si intuisce dal nome era specializzato in hard&heavy.
Era un posto dove più che clienti si stava tra amici, accomunati dalla stessa passione. In un ambiente così era facile che nascessero gesti e battute tipiche del gruppo coeso. In particolare, ogni volta che le note di Paranoid dei Black Sabbath si diffondevano nel locale io dovevo gridare "E nacque?" al che tutti i presenti rispondevano "Il Metal!!!". Era una consuetudine senza alcuna pretesa di precisione musicologica, ma ci piaceva quel mantra.
Il negozio ora è chiuso da tempo (e visto che non c'era facebook non esistono relitti social da andare a visualizzare con nostalgia) ma questo ricordo mi è ritornato in mente stamattina mentre pensavo di scrivere un breve articolo sui Placiti Cassinesi, e nello specifico sul cosiddetto Placito Capuano... Ok, con ordine. Meglio che inizi questo articolo, prima che pensiate che io sia completamente impazzito.
Nell'anno del Signore 883 l'abazia di Montecassino venne distrutta da un incursione saracena. Fuggiti i benedettini a Capua, i piccoli signori fondiari, spezzati i vincoli preesistenti con i monci fuggiaschi, ne approfittarono per allargare i confini dei proprio territori a discapito delle proprietà dell'abazia. Immagino fosse del tutto normale, per gli uomini dell'epoca, gettare qualche pugno di semi poco più in là del proprio orto ogni qual volta ne avevano l'opportunità, dato che poteva significare la differenza fra sopravvivere e morire di fame. Figuratevi allora cosa accadde quando all'improvviso, dopo l'immane tragedia del saccheggio, centinaia di moggi di terreno rimasero di colpo senza proprietario!
Nel 949 il papa Agapito II però, giudicato il momento favorevole, invitò Aligerno, abate del cenobio benedettino in esilio, a ritornare a occupare le terre avite. Aligerno, stando alle cronache, doveva essere un tipo decisamente energico: iniziò una sistematica campagna di fondazione di castri nel territorio, stringendo accordi con valvassini e cavalieri per la gestione (in pratica li concedeva in affitto, purché poi essi tutelassero le terre affidate), attirò contadini cedendo appezzamenti di terra e, soprattutto, si impegnò a recuperare mansi e lotti vari di proprietà dell'abazia e occupati abusivamente. Essendo ancora stretti i rapporti con la città di Capua fu ai suoi notai che si rivolse per le controversie più ostiche. La più famosa in assoluto è quella che lo vide contrapposto a Rodelgrimo d'Aquino, nel marzo del 960. Non sappiamo nulla al riguardo di quest'uomo, possiamo immaginare che avesse una certa levatura sociale dato che la vicenda finisce "in tribunale" piuttosto che a bastonate e Ave Maria per penitenza come capitava ai poveracci. Egli avrebbe (condizionale d'obbligo anche a distanza di mille anni) usurpato un insieme di fondi i cui confini sono così descritti idest terre habentes fines, ab una parte fine Rapidu, de alia parte fine ipsu Carnellu, de t[ertia parte] fine ribo qui dicitur de Marotza, et fine Farnietu, et fine lacum qui nominatur de Ra[deprando], et quomodo vadit usque in silice, de quarta autem parte fine ipsa silice; ipsa alia terr[a per has fi]nes, quomodo incipit da ipsa Cosa, et salit per ipsum montem qui dicitur sancti Donati per me[dia serra], et quomodo descendit super ipsi monticelli de Marri, et vadit ad ipsi pleski qui sunt ad pede de [ipsu m]onte de Balba, et quomodo vadit inde per Duos Leones, et inde salit per ipse serre super, et inde descendit per ipsum monte super ipsa Billa de Gariliano, et inde vadit ad ipsum plesc[um qui no]minatur Grupta Imperatoris usque ad ipsum flumen.
Queste terre aventi per confine da una parte il Rapido (il fiume NdA), dall’altra parte il Carnello (un altro fiume, oggi chiamato Liri), dalla terza parte il rio detto di Marozza (un piccolo fosso noto oggi come Spalla Bassa) e il Farneto e il lago detto di Radeprando e la congiungente fino alla strada selciata (oggi è la statale, tracciato di epoca romana ancora utilizzato e visibile nel 960 d.C.), dalla quarta parte la strada selciata; e un’altra terra entro i seguenti confini: una linea che parte dalla Quosa e sale per il monte detto di S. Donato (oggi è chiamato Monte d’Oro) lungo la cresta, e discende sui poggi di Marri e giunge alle rupi che sono ai piedi del monte di Valva (Monte Fiàmmera) e prosegue per i Due Leoni e di là sale per la cresta sopra il Casale e di là discende per il monte alla Villa del Garigliano e di là raggiunge la rupe detta Grotta dell’Imperatore, giù fino al fiume (presumibilmente il Garigliano).
Stabilite le terre della contesa, il giudice Arechisi chiede di mostrare eventuale documentazione scritta all'abate. I benedettini hanno perduto quasi tutto il loro archivio, pertanto ne sono sprovvisti.
Adunque noi sopra detto Arechisi, giudice, avendo ciò udito, invitammo Rodelgrimo a manifestarci se avesse documenti relativi alle predette terre o se potesse fornir prove circa la situazione giuridica delle terre comprese i suddetti confini. Egli, udito ciò, riconobbe di non avere documenti e di non poter fornire prove secondo la legge. Siamo all'impasse, come sbloccare la situazione? Ci pensa Aligerno, che aveva preparato il colpo di scena con cura. Egli ha portato tre testimoni chiave: Teodemondo, diacono e monaco, e Mari, chierico e monaco, e Gariberto, chierico e notaio. Essi sono pronti a giurare sulle Sacre Scritture in suo favore (e il dubbio che fossero un "pochino" prezzolati viene legittimo!). Il giudice li fa condurre in una stanza separata e poi, uno alla volta, fa loro recitare la formula che costituirà la prova definitiva della proprietà di quelle terre.
"Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti" Eccoci alla premessa. Stamattina ho immaginato uno dei ragazzi del negozio irrompere nella sala dove veniva lasciata la testimonianza gridando "E nacque?" e rimanere lì piazzato in attesa che gli esterrefatti presenti rispondessero -"L'italiano!"-. Nessuno poteva rispondere, ovviamente, ma quella frase, per noi moderni italiani, è diventata a tutti gli effetti l'antenata illustrissima della nostra lingua e dell'odierno dialetto campano. Contiene ancora delle espressioni in latino -Sancti Bendeticti, per esempio- ma costituisce comunque il primo punto conosciuto di frattura, consapevole (a differenza dell'Indovinello Veronese), fra il latino e il nostro futuro linguaggio. Da ultimo, mentre premo play e sparo a tutto volume Paranoid, vorrei farvi notare la stranezza dell'avere una testimonianza in volgare da parte di persone comunque avvezze al latino. Potrebbe essere stata l'esigenza di far comprendere a tutti ciò che era stato detto per cui, di conseguenza, il notaio ha compiuto, così come avviene nei moderni tribunali, la semplice trascrizione letterale di quanto udito? Questa sarebbe la spiegazione migliore, accolta anche dal Tagliavini (avevo il suo testo all'università per l'esame di filologia romanza). O forse vi era una sorta di ufficialità in quella forma volgare, almeno a livello pratico, al punto che si potrebbe ipotizzare l'utilizzo alla pari di due forme linguistiche che non si erano considerate di diverso livello come ipotizza il filologo Pellegrini nei sui saggi di filologia italiana, opera di notevole spessore nel quale viene compiuta un'accurata analisi dei Placiti.
Probabilmente non sapremo mai l'esatta verità a noi preclusa per sempre dallo scorrere del tempo, ma certi misteri, rimanendo tali, non possono che aggiungere altro fascino all'Età di Mezzo.
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