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Roma allo scoppio della Seconda Guerra Punica

Della Città Eterna abbiamo ricostruzioni notevoli, immagini indelebili di strade, palazzi e templi. Conosciamo la sua vita quotidiana, diurna e notturna, ricostruita in documentari e immagini artistiche potenti ed evocative. Tutto affascinante. Tutto bellissimo. Tutto quasi sempre relativo al periodo imperiale. Purtroppo, della Roma repubblicana, il mio periodo storico antico preferito, non c’è moltissimo.

Nel romanzo Milites. Cammino di gloria ho provato a descrivere la città così come doveva apparire nel III secolo a.C., grazie soprattutto agli studi degli storici Ugo Enrico Paoli e Carlo Pavolini, le cui opere di riferimento ho citato nella bibliografia in appendice. “Dopo pochi passi Levinio fu costretto a fermarsi: una vista stupefacente si era appena aperta davanti a lui. Le colline digradavano verso una piana costellata di campi agricoli, con minuscole porzioni di macchie verdi, soprattutto serpentine di vegetazione che seguivano il corso di torrenti e canali costruiti dalla solerzia degli uomini che da centinaia di anni abitavano quei luoghi. Dopo la pianura il terreno riprendeva le sue forme tendenti verso il cielo, ma là, in quella concentrazione di colli, la città di Roma dominava tutto ciò che lo sguardo poteva raggiungere. L’imponenza delle sue mura era niente in confronto alla magnificenza dei templi maggiori, che non sembravano semplicemente costruiti, ma emersi dalla terra stessa come sua prosecuzione naturale nella spinta verso le sfere celesti. Tutto era immenso e particolare: là un agglomerato di case si inerpicava su un colle e poi, improvvisamente, lasciava spazio a una piazza o a una spianata per il mercato, strade regolari si intersecavano fitte e poi terminavano in un’area verde. Sentieri lastricati salivano verso un tempio, ma prima di giungervi sparivano dietro una fila di ricche ville dalle bianche pareti. Un brulicare incessante di uomini, carri, bestiame, di ogni cosa che gli dèi avessero creato in grado di muoversi, indicava le entrate cittadine, le maestose porte la cui sola vista avrebbe fatto perdere ogni speranza agli improvvidi nemici di quella potenza. Levinio cercava di riconoscere luoghi di cui aveva solo sentito parlare, il Campo Marzio, la Curia Hostilia, ma quando pensava di averli individuati, ecco che un altro punto di quell’agglomerato gareggiava per ricevere lo stesso nome. Riconobbe il tempio della triade, in cima al Capitolino. Più in là vide il Tiberim, fluido dono divino che si infilava fra il Gianicolo su una riva e l’Aventino sull’altra, sfiorando come per una carezza la sua prediletta, portandole l’omaggio dell’intero mondo che esso attraversava.

«È magnifica» riuscì a dire Levinio.

«È Roma. Non c’è altro luogo al mondo più bello.»

«Mai avrei pensato che potesse essere così… Grande, così… Non trovo nemmeno le parole.»

«Una volta entrati qualcosa riuscirai a dire. Per esempio, fermiamoci a bere!» Pulcro ridacchiò, ma era evidente che aveva ottenuto il suo scopo.

«Andiamo, non sto più nella pelle.»

Ritornarono alla grande via Appia che avevano seguito fino a quella deviazione e salutarono il cisario che li aveva attesi nei pressi del calesse in affitto. L’uomo aveva approfittato della sosta per scambiare quattro chiacchiere con altri vetturini che affollavano la via; la chiamata del dilectus aveva riempito le strade di viaggiatori, alcuni fra i più poveri avevano fatto fronte comune e preso a nolo delle raede a quattro ruote, tirate da muli e buoi. Tutti parlavano del discorso che aveva tenuto il console Marcello in senato, parole

degne di un Furio Camillo, dicevano molti.

«Marcello ci guiderà alla vittoria» disse Pulcro, convinto.

Raggiunsero Porta Capena e l’imponenza delle mura lasciò Levinio senza fiato.

Porta Capena in un'incisione dell'ottocento

Le aveva viste crescere avvicinandosi, ma fu colto da sgomento nel constatare quanto minuscole apparissero le sentinelle sui camminamenti. Il basamento era costituito da rocce di tufo grandi quanto il loro calessino, mentre l’alzato era composto da blocchi dello stesso materiale ma di differente provenienza, come indicava il colore. Sul Campidoglio la bandiera esposta dall’apertura del dilectus sventolava gagliarda al vento che soffiava dal mare. L’odore di salmastro si mescolava a quello della città, mai ben definito ma quasi sempre poco meno di un orrendo fetore. Alcuni angoli di quell’immenso conglomerato di costruzioni e uomini puzzavano come la latrina della villa, pensò Levinio. Altre volte, invece, giungeva alle sue narici il profumo del pane cotto e dei cibi preparati in ogni dove. Pulcro si era fermato a urinare dentro l’orcio all’esterno della bottega di un tintore.

«Lascia anche tu qualcosa a questo brav’uomo» disse, sistemandosi la tunica.

Levinio si era già svuotato e, con delusione dell’artigiano, proseguì lungo la via che conduceva al Foro. Pulcro accelerò un poco il passò e tornò a fargli da guida.

«Di qua, andiamo.»

«Pensi che faremo in tempo?»

«Inizieranno a chiamare i nomi alla Hora Sexta, ce la faremo.»

Imboccarono infine la via Sacra, come annunciò allegramente Pulcro. Per Levinio non c’erano grandi differenze rispetto alle precedenti, ma poi si rese conto dello spettacolo che lo attendeva all’altro capo della strada. Si intravedeva già da quel punto la facciata della Curia Hostilia, dove il senato soleva riunirsi quando i suoi membri non erano eccessivamente numerosi.

«Ecco, là sotto: la vedi quella zona sgombra davanti alla Curia? Quello è il Comitium, è lì che si riunisce la nostra gente.»

«Ci sei stato?»

«Lo scorso anno, quando venne anche tuo padre. Quanta gente, quei giorni! Ero una goccia nel mare ma mi sentivo proprio a mio agio.»

Si fermarono nei pressi della Graecostatis, l’area dove gli ambasciatori stranieri attendevano di essere ricevuti. Davanti a loro, dopo quella piazzetta piastrellata, si apriva la grande spianata dove la plebe si riuniva. Era costellata di avvallamenti dovuti al continuo calpestio, e le opere di ristrutturazione stentavano a tener dietro al logorio provocato dalle riunioni plebee. Case private e botteghe in legno contornavano senza alcun ordine quei due spazi fondamentali per la vita della città. Sulla destra Levinio vide l’edificio di cui aveva tanto sentito parlare, quello che conteneva le tabernae argentariae e la cui facciata era adorna degli scudi di centinaia di nemici sconfitti. I venditori di gioielli occupavano tutto il porticato che si affacciava sul Foro, una lunga e stretta conca fra i colli e i quartieri popolari. Levinio fu preso da una smania insopprimibile quando ebbe riconosciuto il posto, e stavolta fu lui a condurre, incamminandosi verso destra, incitando Pulcro a seguirlo.

«Rallenta. Abbiamo tempo» disse l’amico, accelerando il passo.

«Dai, non resisto più, devo vederlo.»

Percorsero longitudinalmente il Foro, vegliato dall’alto dal Palatino dominato dal tempio di Giove Statore. Tra quell’importante colle e la Velia, alla loro destra, si intravedevano le migliaia di case, tabernae e portici dell’area più popolosa di Roma. Levinio si fermò, erano arrivati nei pressi del tempio in tufo, scarno e squadrato, dei Dioscuri, eretto nel punto in cui i due fratelli Castore e Polluce fecero abbeverare i cavalli dopo aver portato la vittoria ai romani nella battaglia del Lago Regillo. Davanti all’edificio sacro gli equites si stavano radunando prima del dilectus.

«Eccola» disse Levinio quando Pulcro gli fu di nuovo al fianco

«Sì, sì, ma non correre. Ci siamo, che fretta c’è?»

«Ho sentito che si riesce a intravederne la forma affacciandosi da questo lato.»

La Regia era la sua destinazione. Ne risalì la scalinata, sotto gli occhi degli Arvales che sostavano di guardia all’esterno. Levinio si spostò di lato, dove gli avevano raccontato che avrebbe potuto vedere gli Ancilia. Fra pochi giorni i sacerdoti Salii li avrebbero presi per danzare in corteo, annunciando la stagione della guerra.


«Vedi niente?»

«Qualcosa. Sì, qualcosa si vede. Ecco, là.»

Pulcro socchiuse gli occhi nella direzione indicata da Levinio.

«Non vedo niente.»

«Eccoli. Oh, dèi, che meraviglia.» Indicò gli Ancilia appesi alle pareti in numero di dodici. «Fra questi c’è quello che Marte ha donato a Numa perché la vittoria fosse sempre di Roma. Dovevo passare qui, stamattina, e lasciarmi ispirare. La vittoria sarà nostra e con essa… Tutto il resto.»” La storia del legionario Marco Levinio vi attende nella serie MILITES, i romanzi storici nella Roma repubblicana.



Bibliografia essenziale

- Ugo Enrico Paoli, Urbs. Aspetti di vita romana antica, Le Monnier, 1942

- CarloPavolini, La vita quotidiana a Ostia, 2ª ed., Laterza, 1996

- Florence Dupont, La vita quotidiana nella roma repubblicana, Laterza, 1993

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