Una delle immagini più affascinanti per gli appassionati di storia militare e del periodo napoleonico in particolare, sia essa trasmessa in qualche documentario, in un film o riprodotta su tela, è la formazione a quadrato della fanteria che contrasta una selvaggia carica di cavalieri. Stretti gli uni agli altri, alcuni inginocchiati con il calcio dei moschetti ben piantato a terra, altri in piedi intenti a fare fuoco nella massa di bersagli che sciamano intorno a loro o impegnati a creare una falange con le baionette. Al centro, vicino agli stendardi e ai feriti che mano a mano venivano allontanati dai lati del quadrato, gli ufficiali incitavano i propri uomini con lo stesso ardore con cui li avrebbero guidati in un assalto, consapevoli che se anche solo una piccola porzione del sistema difensivo avesse ceduto l’intera unità era destinata a essere massacrata dalle lame dei cavalieri nemici.
Se la fanteria è schierata in quadrati di due linee con adeguato supporto di artiglieria, non riesco proprio a immaginare cosa potrebbe ottenere la cavalleria contro di essa (Gen. Thiebault, Memorie, 1813)
Le grandi riforme militari della prima metà del settecento rivoluzionarono completamente la struttura e la gestione di un grande esercito in una battaglia campale. La fanteria venne inquadrata in reggimenti che ne regolamentavano equipaggiamento e uniforme, nonché il dispiegamento e le manovre sul campo di battaglia. Il fuoco indisciplinato e discontinuo degli archibugieri mescolati insieme a guerrieri con armi da corpo a corpo venne sostituito dal tiro di fucileria in linea. I soldati, divisi in formazioni standard denominate compagnie -il cui numero di effettivi variava seconda la tradizione della nazione di appartenenza- a loro volta inquadrate in battaglioni e reggimenti, si disponevano in linea di battaglia in prossimità del nemico con il quale si scambiavano varie salve di moschetto, con il supporto dell’artiglieria e protetti dalla propria cavalleria che operava ormai sui fianchi degli schieramenti, nella retroguardia per contrattaccare nel caso vi fosse necessità e, soprattutto, in attesa di un cedimento su cui infilarsi e far strage di soldati in fuga. In un simile sistema le formazioni di picchieri, con l’aumento delle capacità delle armi da fuoco e l’invenzione della lama inastata, la baionetta, che permetteva di trasformare il fucile in una lancia efficace nel corpo a corpo, furono relegate a mero corpo di rappresentanza presso le corti e i palazzi reali. Allo stesso tempo bisogna però osservare che l’avvento della polvere da sparo, contrariamente a quanto si è comunemente portati a credere, non comportò la fine della cavalleria. In realtà essa mutò nel suo ruolo offensivo primario e perdette la totale supremazia di cui aveva goduto nella sua epoca d’oro (ovvero nel medioevo) ma come arma era ancora ben lungi dal divenire obsoleta. Fu l’avvento delle armi automatiche, a decretare la vera fine del binomio uomo-cavallo come strumento da guerra.
Nel periodo napoleonico le unità di cavalleria ebbero ruoli importanti e differenziati, un enorme prestigio e un’effettiva efficacia nei campi di battaglia, quando opportunamente schierate e comandate: corazzieri, cacciatori a cavallo, ulani, ussari, sono nomi ormai noti e comuni e molto spesso bastano e avanzano per lasciar intendere il periodo storico a cui si sta facendo riferimento senza menzionare date. La spavalderia degli appartenenti di tali corpi è divenuta leggendaria e non pochi nemici dovettero ammettere la propria ammirazione per personaggi del calibro di Gioacchino Murat, Maresciallo dell’Impero e successivamente Re di Napoli, che vestito di sgargianti colori guidava i propri reparti di cavalleria con sfrontata sicurezza, come ad Eylau l’8 febbraio del 1807, quando, alla testa di ottanta squadroni, salvò Napoleone da una disfatta clamorosa (Nota. Fu anche la prima battaglia in cui venne impiegata la Guardia Imperiale in un ruolo attivo) riportando comunque gravissime perdite. O nelle cronache dell’inseguimento dei reparti prussiani a seguito della battaglia di Jena-Auerstedt del 1805 o ancora, nel contrattacco di Borodino del 1812. Da un punto di vista tattico le formazioni di fanteria dei secoli precedenti potevano schermarsi dalle cariche di cavalleria tramite l’utilizzo di lance e picche, arrivando anche a specializzarsi in questo tipo di scontro (gli skiltron scozzesi, per esempio, o le formazioni di picchieri svizzeri) perciò la scomparsa di questo modello di fante a favore dei fucilieri comportò la necessità di adottare misure adeguate per difendersi dalle cariche.
La migliore vista che si poteva aspettare la cavalleria in attacco: fanti in colonna o in linea (D.Chandler, Le campagne di Napoleone, Aurum Press, 2001)
La fanteria disposta in linea era particolarmente vulnerabile alle cariche di cavalleria essendo obbligata ad adottare quella formazione per poter essere efficace nel combattimento, i moschetti erano infatti armi tutt’altro che precise e dovevano buona parte della loro funzionalità all’utilizzo in formazioni serrate e continue. Quando scoperta in campo aperto dagli squadroni di cavalleria la linea veniva solitamente attaccata ai fianchi, uno o entrambe contemporaneamente, e in questi casi generalmente non vi era scampo per i fanti. Gli esempi di simili disastri, a livello di battaglioni e superiori (quindi in grado di modificare le sorti di una battaglia), sono molteplici: nel 1805, durante la battaglia di Austerlitz, il 24° reggimento di fanteria leggera venne improvvidamente dispiegato dal suo comandante, il colonnello Pourailly, in linea non molto distante dal reggimento Guardie a Cavallo russo che prontamente caricò falcidiando i francesi e costringendo alla fuga i sopravvissuti (Il generale, Conte De Segur, come riportato nelle sue memorie, raccontò che i fuggitivi passarono di fronte a Napoleone e non esitarono a salutarlo con il grido tradizionale “Vive l’Empereur” salvo poi accelerare la corsa verso le retrovie). Nel 1807, pochi giorni prima della battaglia di Eylau, ci fu uno scontro a fuoco fra reparti francesi e russi duranti i quali il 18esimo reggimento di linea, conosciuto come “il coraggioso”, venne intercettato da una formazione di Dragoni di San Pietroburgo, notoriamente non un reparto di cavalleria vera e propria ma più un reparto di fanti a cavallo, questo per rendere l’idea di quanto potesse comunque essere devastante una carica di cavalleria. Il 18° perdette 44 ufficiali e 500 soldati e solo l’intervento del 13esimo Cacciatori (cavalleria leggera francese) evitò un completo massacro visto che l’intero reggimento si era raggruppato in maniera disordinata attorno ai propri stendardi e lì si sarebbe fatto immolare. Un altro caso degno di nota e capace di rendere evidente il concetto di vulnerabilità di cui stiamo parlando è riportato presso Waterloo, nel 1815. L’8° battaglione della King’s German Legion, (formazione inglese composta da rifugiati di origine tedesca) si dispose in linea per affrontare l’avanzata della fanteria francese quando, passando attraverso i varchi fra le proprie unità, gruppi di Corazzieri caricarono gli inglesi prima del contatto con la fanteria massacrandoli sul posto non potendo essi, ormai, cambiare formazione né soprattutto potendo opporre alcuna resistenza dalla formazione in linea adottata.
Questi esempi mostrano chiaramente come l’unica difesa possibile per la fanteria era il chiudersi in una solida formazione, mutuata dalle già citate unità di picchieri, detta quadrato riducendo notevolmente la propria capacità di fuoco e rendendosi vulnerabile all’artiglieria, che aveva buon gioco nel colpire un bersaglio così grande ma allo stesso modo fornendo uno schermo che si dimostrò quasi sempre invulnerabile alle cariche di cavalleria. Quasi, appunto, perché in alcune occasioni divenute ormai celebri la cavalleria ebbe la meglio nonostante l’enorme svantaggio.
Prima di visionare nel dettaglio quei casi vediamo perché il quadrato era considerato quasi del tutto inespugnabile alla cavalleria.
Una carica di cavalleria contro un quadrato di fanteria statisticamente viene respinta 99 volte su 100 (Mark Adkin, The Waterloo Companion, Aurum Press, 2001)
Al minimo sentore di attacco di cavalleria gli ufficiali in comando erano addestrati a ordinare l’immediata formazione di quadrati. I tempi necessari variavano molto, dipendenti dalle condizioni di stress del combattimento, dall’addestramento degli uomini e dal tempismo con cui veniva avvistata la minaccia. Da manuale un battaglione con un addestramento normale doveva poter costruire la formazione difensiva in due minuti, tre al massimo. Il tempo raddoppiava per ogni battaglione coinvolto nello stesso quadrato. In battaglia la media erano cinque minuti per singolo battaglione, secondo alcune stime estrapolate dalle memorie dell’epoca. I quadrati formati partendo da un iniziale schieramento in linea differivano nella forma da quelli formati da schieramenti in colonna (la colonna era la miglior struttura per il movimento sul campo e per l’attacco alla baionetta). Anche i tempi differivano, risultando sempre più rapido lo schieramento dalla colonna piuttosto che da una formazione di linea.
Un battaglione, circa 600 uomini, composto da sei compagnie come quelli degli esempi riportati in figura, formava un quadrato profondo tre uomini, 150 uomini per lato di cui 50 in prima linea. Considerando mezzo metro come media di spazio occupato da ogni soldato si avrà un fronte di 25 metri, e ognuno di questi metri poteva essere difeso fino a un massimo di 6 uomini nello spazio occupato invece da un solo cavaliere. Impossibile ottenere qualche colpo con una sciabola, moschetto e baionetta erano più lunghi e in rapporto di sei a uno, difficilissimo allo stesso modo per un lanciere a cavallo poter effettivamente pensare di contrastare l’istrice d’acciaio che la fanteria gli opponeva.
La storia non manca di esempi, uno su tutti la disastrosa carica di Ney a Waterloo, pienamente contrastata dai quadrati di Wellington, di quanto arduo fosse per la cavalleria affrontare i quadrati: Nel 1815, a Quatre Bras un cavallo si beccò sette proiettili dall’unica scarica di fucileria che lo squadrone a cui apparteneva ricevette prima di ritirarsi. Nel 1809 i Cacciatori a Cavallo di Napoleone caricarono, a Wagram, un quadrato formato da coscritti. Morirono dieci cavalieri e dieci cavalli nell’unica salva sparata, il resto si ritirò. Nel 1813 a Gohrde il 3° squadrone Ussari della King’s German Legion perdette 98 uomini e 139 cavalli nel vano tentativo di rompere un quadrato (il 25% del totale). Oltre a questi esempi specifici è importante ricordare le migliaia di occasioni in cui la sola presenza di uno o più quadrati ben saldi attestati a difesa impedì qualsiasi iniziativa alla cavalleria. Fondamentale era mantenere i nervi saldi, per evitare che i moschetti venissero scaricati troppo presto, rendendo il resto dello scontro una lotta di resistenza fra il muro di baionette e la forza dei cavalli. A Waterloo più di un comandante di compagnia fu udito minacciare che avrebbe ucciso chiunque avesse aperto il fuoco prima dell’ordine generale. Eppure alcune volte la cavalleria riuscì dove nessuno avrebbe scommesso un bottone su un eventuale successo, coprendosi di gloria e fama. Spezzare un quadrato equivaleva a vincere un’olimpiade attuale, era un’impresa memorabile e il periodo delle guerre napoleonico riporta alcuni eclatanti episodi.
* Nel 1812 a Kliastitzi un reggimento intero, disposto a quadrato, attesa la carica di cavalleria francese in un solido muro di oltre 3000 soldati. Purtroppo per loro il fuoco venne aperto troppo presto, causando poche vittime e costringendo, istintivamente, cavalli e cavalieri ad ammassarsi in un unico blocco che sfondo uno dei lati distruggendo il quadrato.
* Nel 1813 a Dresda il reggimento ussari di Loubny sfondò due quadrati della Giovane Guardia, colpendone molto fortuitamente gli angoli non adeguatamente formati. Poco dopo gli stessi cavalieri vennero respinti da tre quadrati di coscritti, ciò nonostante riuscirono a mettere fuori combattimento circa 400 francesi fra morti e prigionieri.
* A Michelsdorf, nel maggio del 1813, poco meno di 20 squadroni di prussiani (Ulani e corazzieri in formazioni miste) distrussero un sistema di quadrati divisionale, irrompendovi prima che si riuscisse a chiudere del tutto e costringendo l’intera divisione, la 16°, a una sconclusionata fuga che si trasformò in un bagno di sangue
* Nel 1805 a Austerlitz un ufficiale dei Mamelucchi penetrò nel quadrato di un battaglione del reggimento Guardie di Semenovski finendo colpito svariate volte da baionette e proiettili. Ferito si difese strenuamente coinvolgendo molti Russi nella mischia. I suoi compagni approfittarono del varco da lui stesso aperto per distruggere il quadrato, catturando oltretutto anche gli stendardi dell’unità.
La più memorabile però rimane, a mio avviso, l’impresa compiuta da due squadroni di Ussari del Brandeburgo, agli ordini del Generale prussiano Von Yorck che nel 1813 distrussero due quadrati con la violenza della loro carica, e pur avendo subito notevoli perdite riuscirono a scatenare un effetto a catena che portò al disfacimento di tre reggimenti francesi e alla cattura di un intero parco d’artiglieria divisionale. Sull’onda dell’attacco degli Ussari l’intero corpo d’armata di Marmont venne scosso al punto che il comandante della cavalleria francese si rifiutò di obbedire all’ordine di intervenire a tamponare la situazione.
Come tutte le generalizzazioni, l’assunto di Adkin che 1 su 100 era la stima di probabilità di riuscita di una carica contro dei quadrati è ovviamente una forzatura, basata però sull’evidenza dei dati oggettivamente disponibili e non così iperbolica come si potrebbe superficialmente credere. In ogni caso, quelle rare volte in cui lo scontro volse a sfavore della fanteria i risultati andarono ben al di là di ogni aspettativa: questo di fatto fu il perché la cavalleria non smise mai di confrontarsi contro il quadrato, indipendentemente dalla probabilità di successo e dalla casistica precedente. Alla conta dei fatti si trattò davvero dello scontro fra il puro e semplice coraggio contro il piombo dei moschetti e l’acciaio delle baionette. Nessun cavaliere di quel tempo si sarebbe ritirato da una simile sfida.
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